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Gli occhi dell’Usignolo

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Massimo
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Gli occhi dell’Usignolo

Messaggio da Massimo »

Gli occhi dell’Usignolo
Di A. Capecchi


Dallo scrigno della memoria ricordi lontanissimi, che sembravano sepolti per sempre, emergono riprendendo corpo; a volte nitidi, vivi, collegati tra loro, a volte nebulosi e staccati, pietruzze di un mosaico con molti vuoti, ma che pur sempre rappresentano un pezzo della mia infanzia e della mia giovinezza: ... fucili da poco tolti dal fodero, con ancora addosso l'odore acre dell'olio protettivo, alla vigilia dell'apertura della caccia, ... le diecine di gabbie con i richiami, ben nascoste intorno ai "ritti" (così venivano chiamati nel pisano gli alberi senza foglie posti vicini al capanno) ... la mia prima fucilata: vittima un foglio rettangolare di carta gialla appoggiato al vecchio muro di cinta, con un fuciletto calibro 32 e una di quelle mezze cartucce aperte, che quando esplodevano, invece di fare bum facevano ciack, con un suono simile più a quello di una noce schiacciata su una pietra che a quello di uno sparo; …e poi la sveglia di primo mattino e via per i solitari viottoli dei boschi, al levar del sole, con le scarpe umide di rugiada, nell'aria che odorava di resina e di muschio, per raggiungere il capanno a caccia di Prispoloni, Frusoni, Fringuelli, Verdoni...
La mia era da sempre una famiglia di cacciatori, un antenato, sacerdote "libero", cioè senza parrocchia, don Ulisse, fratello del nonno paterno, grande appassionato di caccia ai Tordi, aveva avuto dalle autorità ecclesiastiche il permesso per poter officiare la Messa nella Cappella gentilizia, da un'ora prima dell'alba a un'ora dopo mezzogiorno, in modo da combinare il dovere sacerdotale con la passione venatoria.
Presi il porto d'armi a sedici anni sotto la responsabilità paterna, ma ero anche interessato alle Scienze Naturali: con due lenti, una lampada, poche altre cose e molta fantasia mi ero costruito una specie di rudimentale microscopio e con questo mi divertivo a osservare piume, larve e piccoli insetti. Ricordo che a quei tempi era spesso nostro ospite un cugino, mio coetaneo, patito di letteratura e per niente interessato alle scienze. Molte volte ci incontravamo in biblioteca, lui a leggere poesie ed io ad osservare con il mio aggeggio gli animalucci più disparati: mi prendeva affet¬tuosamente in giro per questa mania e mi appioppò il soprannome di Bachetti, anzi di Baetti, alla pisana. Tutto preso dalla lettura di opere umanistiche sembrava non accorgersi dei miei tentativi per convincere qualche giovane passero, caduto dal tetto, ad aprire il becco e mangiare il cibo che gli offrivo. Eravamo in un'epoca nella quale l'approccio con gli animali "selvatici" in genere, era diverso da oggi, uno poteva benissimo sentirsi un "grande" ornitofilo e contemporaneamente un "grande" cacciatore delle stesse Specie. Se per me questa mentalità lentamente cambiò, lo devo all'insegnante di Scienze Naturali del Liceo, un professore che per quei tempi aveva adottato un metodo rivoluzionario; l'insegnamento dal vivo con riferimento alla nuova scienza: l'etologia.
L'aula era una grande stanza rettangolare piena di banchi e in certi giorni di animali vivi: Passeri, Colombi, Tortore, Conigli, ma anche Biacchi, Lucertole, Gechi; perfino Artropodi. Ricordo che un giorno, tra gli strilli delle ragazze, il professore aprì una di quelle piccole scatole da lucido per scarpe e liberò sul piano della cattedra una coppia di Scorpioni che si misero a camminare a "coda ritta": così iniziò la lezione. Con questo metodo, gli animali non erano più fredde immagini fotografiche, in bianco e nero e molto scadenti, sulle pagine dei libri di scuola, o miseri cadaverini rac¬chiusi in barattoli di vetro sotto formalina, ma esseri vivi con una loro vita e una loro storia che il professore descrivendole rendeva affascinanti. Tutti gli animali, sempre liberati dopo le lezioni, erano portati in classe dagli studenti. Un giorno un ragazzo si presentò con un giovane Usignolo ancora incapace di volare, capitato chi sa come tra un mucchio di foglie ingiallite e di rami secchi, in un angolo del suo giardino. Dopo una lunga e accattivante lezione su questo "Passeraceo lesinirostro", il professore mi affidò l'orfanello, non ancora indipendente, che rimase con me anche dopo la chiusura delle scuole.
Visse per più di un anno in piena salute, quasi sempre libero per la casa, intelligente e amico, canticchiando anche la notte. Poi si ammalò, iniziò lentamente a dimagrire e a niente valsero i tentativi che nella mia ignoranza misi in atto per guarirlo.
L'appetito non diminuì, anzi aumentò ma pian piano il petto divenne una lama, le forze lo abbandonarono e non fu più capace di volare. Durava fatica a camminare, barcollava e stava ad ore accovacciato. Le piume erano divenute opache, soltanto gli occhi, i grandi occhi espressivi, non erano mutati, mi guardavano ancora pieni di vita e sembravano chiedermi aiuto.
Una mattina, mentre con uno dei soliti rudimentali microscopi osservavo, attaccate alla punta di un ago, delle uova di mosca, il povero ammalato, posto accanto a me in una scatola da scarpe aperta, ebbe un leggero tremito e sembrò guardarmi come per un estremo saluto. Forse fu soltanto la mia immaginazione, ma ancora oggi ricordo quegl'occhi che dopo poco si chiusero per sempre.
Gli occhi dell'Usignolo e l'insegnamento del professore di Scienze Naturali ebbero il loro effetto. L'anno successivo non rinnovai il porto d'armi. La passione per l’ornitologia e il rispetto per gli animali mi coinvolse sempre più. Nella mia lunga vita di ornitofilo ho avuto la possibilità di ospitare nelle voliere centinaia e centinaia di specie di uccelli: dalle Nettarine ai Buceri trombettieri, dai Tucani ai Codibugnoli Con alcuni di loro sono stati rapporti di “vera amicizia” e alla loro morte, vi prego di non ridere, ho pianto!


90 88 67 66

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